Guida propedeutica ad un buon approccio interculturale
DEFINIZIONE DEI PRINCIPALI CONCETTI AD USO DEGLI INSEGNANTI E DEGLI OPERATORI INTERCULTURALI
Ogni nazione, paese o comunità possiede una propria cultura, ma che cos’è la cultura?
La cultura è un complesso di idee, simboli, azioni e disposizioni storicamente acquisiti, selezionati e tramandati in quanto largamente condivisi da un certo numero di individui, che proprio attraverso questi elementi comuni si assimilano tra loro in senso pratico e intellettuale.
Conoscere e avere la possibilità di osservare da vicino le differenze e le somiglianze tra le idee e i comportamenti che trovano espressione in comunità umane diverse è fondamentale per facilitare la comprensione dell’esistenza di modi diversi e culturalmente mediati di vivere e di relazionarsi tra le persone, ancor più per i giovani studenti del mondo attuale; ed è anche fondamentale per comprendere la pari dignità di tutte le culture.
GLOSSARIO MINIMO
Fonte: Cultura, culture, Intercultura, G. Cipollari, A. Portera (a cura di), Regione Marche, Ancona 2004.
Pedagogia transculturale. Il concetto di transcultura rimanda a qualcosa che attraversa la cultura ed esprime aspetti comuni a tutti gli esseri umani. La pedagogia transculturale si riferisce pertanto a una riflessione sull’educazione che trascende le particolarità e le specificità delle singole culture e che orienta le strategie educative verso elementi universali del genere umano a prescindere dalle etnie, dalle lingue, dalle tradizioni, dalle religioni. L’approccio transculturale permette dunque di avvicinarsi a livello pedagogico a tutto ciò che caratterizza ed appartiene alla specie umana, prestando attenzione non a ciò che divide, ma a ciò che unisce, come le idee, i sentimenti, le emozioni o i bisogni di trascendenza. Questo approccio, attraverso l’analisi di artefatti umani quali le fiabe, i miti e racconti, piuttosto che il confronto dei comuni vissuti quotidiani o degli aspetti legati alla pratica religiosa può, ad esempio, permette ai bambini italiani di comprendere meglio i vissuti dei compagni con esperienze migratorie. Sul piano pedagogico, tutto ciò si colloca vicino alla tradizione dell’universalismo culturale propugnato da Kant e ai principi dell’Illuminismo, con l’affermazione dell’uguaglianza e della pari dignità di tutti gli esseri umani. La ricerca di “valori universali” è stata recepita anche dal modello denominato Educazione alla mondialità. Nei settori psicologici e psichiatrici l’aggettivo “transculturale” è ormai ben consolidato (vedi i numerosi contributi della Psicologia cross-culturale e della Psichiatria transculturale), mentre in ambito pedagogico presenta ancora qualche rischio di applicazione non corretta che si concretizza nel trascurare i movimenti e i processi di cambiamento in atto nei sistemi culturali, un fatto che potrebbe condurre ad una pedagogia aculturale e quindi priva del fondamento stesso dell’intervento educativo.
Pedagogia metaculturale. Nel linguaggio comune, il prefisso “meta” riguarda il concetto di trasformazione (es. metamorfosi); in quello scientifico rimanda invece a qualcosa che trascende, che “sta al di là”. L’esempio più noto è quello della metafisica, disciplina che comprende attribuzioni che trascendono le cose naturali e che vanno oltre la dimensione scientifica. In psicologia è invece consolidato il concetto di metacomunicazione che, secondo la scuola di Palo Alto, significa “comunicare sulla comunicazione”. In pedagogia, il concetto di metacultura non è proponibile poiché, richiamando l’idea di una sorta di “supra-cultura”, si riferirebbe a una pedagogia senza radicamento nei valori culturali con i rischi accennati parlando sopra di pedagogia transculturale.
Pedagogia multiculturale o pluriculturale. Questo è forse l’approccio pedagogico più noto e applicato nella didattica. La pluricultura rimanda all’effettiva esistenza di etnie e culture differenti, includendo anche i concetti di irripetibilità e di non componibilità di ogni cultura, e richiamando il diritto all’autonomia culturale. Nell’ambito del multiculturalismo, a fronte della presenza di due o più culture si studiano in prticolare le differenze negli usi e costumi, nelle lingue e nelle tradizioni. Partendo da questo confronto sarà poi possibile non solo individuare comunanze e differenze fra diversi gruppi etnici e culturali considerati, ma anche rintracciare spunti per un’educazione al riconoscimento e al rispetto del diverso e dei suoi diritti. L’intervento educativo, attingendo da un modello che riconosce la pluralità culturale e ne sottolinea le specificità, si orienta così alla sensibilizzazione nei confronti delle molteplici culture presenti, offrendo altresì spunti utili a combattere fenomeni quali l’etnocentrismo, il razzismo o la xenofobia. Il rischio principale di questo approccio consiste nel considerare le culture in maniera rigida e statica; in molti casi si corre il pericolo di limitare l’intervento educativo a presentazioni esotiche e folkloristiche legate a culture “presunte” e stereotipate che in realtà nel Paese di riferimento possono avere subito importanti evoluzioni. Sul piano pedagogico, inoltre, bisogna sempre ricordare che non ci si può limitare a proporre degli interventi a carattere prettamente descrittivo nel vago tentativo di promuovere la possibilità di una convivenza pacifica di persone diverse, le une accanto alle altre, su modello della metafora del condominio; convivere e conoscersi più o meno approfonditamente rappresentano solo il punto di partenza per interagire influenzandosi reciprocamente in maniera positiva.
Pedagogia interculturale. Mentre la multicultura e la pluricultura richiamano fenomeni di tipo descrittivo, il ricorso al prefisso inter esprime la messa in relazione, l’interazione o lo scambio tra due o più elementi. “Multiculturale” è un aggettivo che fa riferimento alle società, nel senso che al loro interno si può rilevare la presenza di soggetti portatori di usi, costumi, religioni e modalità di pensiero differenti; “interculturale”, invece, è un aggettivo che riguarda la strategia d’intervento educativo e in particolare il fatto di mettere in contatto e in interazione le differenze tra culture diverse. La pedagogia interculturale rifiuta espressamente la staticità e la gerarchizzazione e può essere intesa come possibilità di dialogo e di confronto, senza che i soggetti coinvolti debbano rinunciare a priori a parti significative della propria identità. Fondandosi sul confronto del pensiero, dei concetti e dei preconcetti, la pedagogia interculturale diviene una pedagogia dell’essere che, a prescindere dalla cultura di provenienza, pone al centro il soggetto nella sua interezza. Attuare i principi della pedagogia interculturale significa quindi effettuare una sintesi originale tra l’universalismo e il relativismo culturale, valorizzando tutte le manifestazioni culturali e tendendo anche conto del bisogno umano di interazione e di convivialità. Muovendo dal rispetto dell’identità culturale altrui (strategia multiculturale), si passa dunque alla valorizzazione delle differenze, all’interazione, alla convivialità (strategia interculturale). Per la pedagogia interculturale l’alterità, l’emigrazione e la vita in una società multiculturale cessano di essere associate solamente a rischi di disagio e malattia e divengono opportunità di arricchimento e di crescita individuale e collettiva. L’incontro con lo straniero, con il soggetto etnicamente e culturalmente differente, rappresenta una sfida, una possibilità di confronto e di riflessione sul piano dei valori, delle regole e dei comportamenti.
Educazione interculturale. Mentre la pedagogia richiama alla riflessione teorica su tutto ciò che concerne l’educabilità e l’educazione dell’essere umano, l’educazione costituisce l’atto pratico, l’azione che l’educatore compie nei confronti dell’educando sul piano culturale e dei valori, aiutandolo ad estrinsecare le proprie potenzialità e a raggiungere la propria migliore forma di vita. Educare in modo “interculturale” significa pertanto realizzare praticamente i principi della pedagogia interculturale: educazione alla pace, ai sentimenti, all’ascolto, al dialogo, alla gestione dei conflitti, alla legalità e al rispetto dei limiti. Peraltro, applicare correttamente gli assunti dell’educazione e della pedagogia interculturale significa anche applicare pienamente i concetti fondamentali della pedagogia generale.
Didattica interculturale. L’educazione necessita sempre di un obiettivo (non è possibile educare se non se ne chiarisce la finalità), di mezzi e strumenti e di un metodo, ossia di una riflessione sul “modo” e sul cammino da percorrere tenendo conto del punto di partenza, degli ostacoli da affrontare e degli obiettivi da perseguire. La didattica rappresenta il percorso concreto che si intende seguire. Concettualizzare la didattica secondo una prospettiva interculturale significa riflettere sulla modalità più idonea alla trasmissione dei principi interculturali. Il fatto che attualmente esistano pochi modelli di didattica interculturale non dipende tanto dallo scarso interesse suscitato dall’argomento, quanto dalla difficoltà di individuare delle modalità “tipicamente interculturali”. Se, come abbiamo accennato poco sopra, la pedagogia interculturale non può essere divisa nettamente dalla pedagogia generale in quanto l’oggetto è sempre l’educando, indipendentemente da lingua, cultura e religione, anche la didattica generale difficilmente potrà essere differenziata in maniera netta dalla didattica interculturale, nella quale risulta sempre importante riportare e sottolineare alcuni concetti estremamente significativi in un contesto di pluralità etnico-culturale o migratorio quali il rispetto, l’accettazione, il dialogo e la gestione nonviolenta del conflitto.
Accettazione. L’accettazione comprende l’esperienza basilare di essere considerati positivamente, di ricevere attenzione, amore, di essere protetti e curati. È importante sottolineare che l’accettazione, insieme all’empatia e alla congruenza, sono stati individuati da Carl Rogers come elementi indispensabili per la riuscita di una terapia. In base ai risultati di una ricerca di Agostino Portera (1997), questi tre fattori si sono rivelati bisogni fondamentali il cui appagamento si lega ad un sano sviluppo della personalità. Il bisogno di essere accettati in maniera incondizionata a prescindere dalle proprie modalità comportamentali, dall’aspetto esteriore della persona, dalla lingua, dalle idee o dalla religione si lega a un’esperienza indispensabile per chiunque e assume un significato ancora più importante in un contesto migratorio e multiculturale. In ambito educativo spesso si confonde l’accettazione, che deve essere incondizionata e va sempre accordata alla persona, con l’essere d’accordo, che invece rappresenta una condizione che può variare in funzione delle circostanze. L’educatore e l’insegnante dovrebbero sempre soddisfare questo genere di bisogni del bambino, anche nei casi in cui non dovessero condividere le sue idee o le sue modalità comportamentali: dovrebbero sempre accordargli accettazione e riconoscimento gratuitamente, senza condizioni o ricatti. La mancanza o l’insufficiente accettazione da parte degli educatori possono favorire lo sviluppo di personalità nevrotiche, disturbi psicologici di tipo cognitivo, emotivo o comportamentale – in particolare per quanto concerne lo sviluppo dell’autostima – che trovano espressione nella mancanza di autonomia, nella ricerca disperata di approvazione da parte dell’ambiente sociale circostante (ad esempio piegandosi alle opinioni e alle decisioni altrui), nello sviluppo di modalità comportamentali aggressive e distruttive rivolte a persone e oggetti o autodistruttive, anche attraverso lo sviluppo di forme di dipendenza da sostanze o altro.
Empatia. L’empatia si riferisce alla capacità di comprensione profonda della persona con la quale si sta interagendo, al tentativo di immedesimarsi e di mettersi nei suoi panni liberi da preconcetti e stereotipi; ma essere empatici significa anche avere la capacità di mantenere una certa distanza, non perdere il contatto con i propri sentimenti, le proprie idee e le proprie emozioni. In sintesi, si tratta di avvicinarsi il più possibile all’altro per comprenderlo e conoscerlo da vicino, cercando anche di non perdersi e di rimanere fedeli a se stessi. Il confronto interpersonale aperto e senza preconcetti costituisce una modalità che ricalca il principio dialogico “io-e-tu” formulato Martin Buber, secondo il quale due soggetti riescono ad entrare in contatto fra loro abbandonando la paura di estraniazione e la pretesa di costringere l’altro a pensare nel proprio modo. Nei contesti di pluralismo culturale e migratorio si assiste molto spesso a situazioni in cui è difficile soddisfare il bisogno di empatia, nonostante faccia riferimento ad uno dei principi fondanti della pedagogia interculturale e nonostante nel contesto migratorio la comprensione empatica di tipo interattivo con l’ambiente sociale circostante (Mitwelt) assuma un’importanza del tutto particolare. In tali circostanze, l’empatia è molto difficile da realizzare poiché molti dei vissuti, dei sentimenti e delle modalità comportamentali dei soggetti stranieri non possono essere compresi mediante categorie culturali diverse, spesso rigide e legate a stereotipi. Non vedere soddisfatti i propri bisogni di empatia può favorire disagi evolutivi e disturbi comportamentali; quando gli educatori trasmettono messaggi del tipo: «Noi riusciamo a capirti meglio di te stesso» e «Solo ciò che noi proviamo e sentiamo è giusto», essi impediscono al bambino il riconoscimento dei suoi sentimenti e delle sue emozioni, rendendoli stranieri anche a se stessi.
Congruenza. Secondo Carl Rogers, una persona completamente sana (fully functioning person) si trova “in perfetta armonia o corrispondenza tra il proprio Sé e le esperienze quotidiane”; è cioè la persona che, percependosi integrata, completa e autentica si trova, appunto, in uno stato di congruenza. La congruenza o fedeltà interiore costituisce un fattore fondante della pedagogia interculturale. Analisi biografiche di giovani con esperienze migratorie mostrano che condizioni di incongruenza, ambivalenza e discontinuità (incluse le situazioni legate a cambiamenti della persona di riferimento) possono favorire l’insorgenza di gravi disagi evolutivi con conseguenze psichiche e comportamentali negative. Bambini e giovani di origine straniera molto spesso entrano in contatto con educatori che assumono atteggiamenti incongruenti o ambivalenti, passando dal rifiuto (xenofobia) all’accettazione acritica (xenofilia) di tutto ciò che è diverso.
Xenofobia. La fobia, una delle nevrosi individuate dalla psicoanalisi classica che spesso paralizza oppure ostacola fortemente il contatto, si riferisce alla paura eccessiva e immotivata nei confronti di un elemento neutro (ad esempio, un animale, un oggetto o un luogo) che a livello inconscio richiama problemi del passato o traumi non superati e rimossi. Il termine xenofobia può essere pertanto inteso come “fobia dello straniero”. Diversi studi mostrano come gli insegnanti e gli educatori spesso non conoscano sufficientemente il retroterra culturale dei bambini e dei giovani stranieri con i quali si ritrovano ad avere a che fare e anche come spesso sembrino poco motivati ad un contatto autenticamente improntato all’alterità; sostanzialmente, invece di dare a questi soggetti la possibilità di continuare ad essere se stessi – pur nella condizione di contatto con norme e valori potenzialmente diversi da quelli di origine – e favorire lo sviluppo della loro personalità, rischiano di assumere atteggiamenti distanziati se non addirittura ostili e discriminatori, fino a raggiungere posizioni estreme di tipo razzista o xenofobo. Nei bambini e nei ragazzi esposti all’esperienza multiculturale, la sensazione di non essere presi in considerazione, capiti o rispettati dagli insegnanti può ingenerare delle crisi che, accentuando e consolidando ulteriormente la loro posizione di marginalità nella classe, peggiorano sia la loro condizione scolastica, sia il loro vissuto psichico generale.
Xenofilia. Il concetto di xenofilia è stato recentemente ribadito da Agostino Portera in seguito ai risultati di una ricerca longitudinale. Contrapponendosi alla xenofobia, la xenofilia esprime “l’amore per lo straniero”. Un rapporto autoctono-straniero caratterizzato da sentimenti amorosi apparirebbe come qualcosa di positivo, ma le implicazioni sono anche di altra natura. La xenofilia rimanda a casi di iperidentificazione con i bambini stranieri e con i loro problemi; un atteggiamento “benevolo” di eccessiva identificazione, sicuramente assunto da educatori e insegnanti con intenti positivi, presenta risvolti negativi o addirittura dannosi quando gli scolari si sentono costretti a reprimere i propri standard culturali interiorizzati per paura di assistere alla fine di questo rapporto privilegiato. Come emerge dalla ricerca di Portera (1999), il prezzo pagato dagli alunni stranieri per continuare a ricevere riconoscimento e stima dagli insegnanti e dai compagni è spesso “il rimanere piccoli e incapaci”, ossia la negazione o la rimozione di quelle parti di sé ritenute non accettate dall’educatore, con conseguenti conflitti di identità e ricadute negative nel rapporto con i familiari. In pedagogia interculturale è noto che la sostituzione, la protezione e l’evitamento dei conflitti non solo non sono funzionali allo sviluppo dell’educando, ma possono anche favorire l’insorgenza di ulteriori disagi e disturbi; per crescere occorre lasciare, separarsi. Affinché l’educando riesca a staccarsi e a crescere è necessario che anche l’educatore riesca ad accettare la separazione e a viverla non come una perdita, ma come una naturale opportunità di crescita.
Razza. L’espressione “razze umane” è scientificamente priva di fondamento e pedagogicamente improponibile. La storia dell’umanità è una storia di migrazioni. In base agli studi più recenti di paleontologia, genetica, archeologia e linguistica storica, l’origine unica di tutti gli uomini, ossia dell’unica “razza umana” esistente, sarebbe localizzata nell’area geografica compresa fra l’Africa Meridionale, l’Africa Orientale e il Vicino Oriente. Sono infatti l’Etiopia e la Palestina le regioni che forniscono i più antichi resti dei nostri antenati (Homo sapiens sapiens), databili a circa 100.000 anni fa. La forma dei continenti, gli eventi climatici e le necessità alimentari, hanno successivamente spinto l’essere umano ad occupare aree sempre più vaste del pianeta. Circa 20.000 anni fa, il raffreddamento dei poli ha creato una barriera di ghiacci tra l’Europa e l’Asia del Nord, limitando i contatti; il prosciugamento del Sahara nell’Africa Orientale ha impedito le migrazioni fra l’Africa e il Vicino Oriente; l’abbassamento del livello del mare ha facilitato il passaggio tra l‘Asia e l’America attraverso lo stretto di Bering. Nel corso degli ultimi 10.000 anni le migrazioni sono state favorite dalla crescita demografica. Negli ultimi due secoli la fame, le guerre, le persecuzioni politiche ed etniche, la ricerca di lavoro e la spinta verso nuove esperienze hanno letteralmente trasformato il volto europeo. Se è vero che gli esseri umani appartengono ad un’unica razza, è altrettanto vero che sono anche differenti: esistono evidenti differenze etniche, linguistiche, religiose e culturali che, specialmente in un contesto educativo, non possono non essere considerate.
Cultura e identità. Sin dall’antichità, con il termine “cultura” si intendeva fare riferimento al bene più prezioso per gli uomini. Il significato originario di questa parola deriva dal greco paidèia (παιδεία), che indica sia l’azione educativa sia il suo risultato; in latino è stata tradotta con humanitatis, limitandone l’ambito e suscitando anche qualche ambiguità. Esiste una disciplina che si è interamente strutturata attorno a questo termine: l’antropologia culturale. Sia per l’antropologia, sia per la pedagogia, la parola cultura non è da intendersi secondo la tradizione degli studi classici e umanistici, ma in riferimento a tutto ciò che concerne l’uomo e ciò che l’uomo ha prodotto: conoscenze, codici, regole, rappresentazioni, valori, artefatti, usi, costumi, comportamenti, interessi, aspirazioni, credenze, miti, pratiche religiose. Soprattutto nel contesto interculturale, le culture sono da considerarsi come entità altamente dinamiche e in continua evoluzione; nel momento in cui si descrivono delle differenze culturali, si effettuano delle “fotografie”, sicuramente vere, valide e importanti, ma che forniscono solo una visione parziale e statica di una realtà molto più complessa. Spesso si commette l’errore di far corrispondere un’identità culturale con i confini geo-politici di uno stato nazionale, ma la cultura non si lascia contenere all’interno di una delimitazione. Un ulteriore errore consiste nel credere che nel contatto interculturale sistematico e prolungato sia possibile conservare comunque, piuttosto che perdere del tutto, la propria cultura; ma la cultura, come l’identità, non si può né acquisire da un momento all’altro, né tanto meno perdere; il contatto interculturale alimenta invece processi di acculturazione, una trasformazione continua mediante la quale, lungo il corso della vita e più o meno consciamente, si abbandona qualcosa per interiorizzarne un’altra.
Choc culturale. Reazione legata alla reazione nostalgica che, subito dopo l’emigrazione, si verifica in seguito al confronto con modelli di riferimento diversi dai propri presenti nella società ospitante. Il dibattito scientifico sullo choc culturale è ancora in atto; nell’ambito di un’indagine effettuata in Canada, Tyhurst (1995) ha riscontrato l’esistenza di periodi caratteristici per la reazione psichica al cambiamento del luogo di residenza; inizialmente prevarrebbe un sentimento di benessere; dopo circa sei mesi si sarebbe maggiormente coscienti dei problemi quotidiani, il paese di origine verrebbe idealizzato e comparirebbero alcuni sintomi psichici caratteristici, quali forte senso di sfiducia, reazioni paranoiche, depressione e aggressività, determinati soprattutto dai vissuti di insicurezza e paura. Tietze (1942) e Kantor (1966) hanno constatato una correlazione inversa tra l’insorgenza dei disturbi psichici (soprattutto psicosi e nevrosi negli adulti e disturbi comportamentali nei bambini) e la durata della permanenza nella stessa abitazione. Al contrario, Pederson e Sullivan (1964) non hanno riscontrato alcuna correlazione tra il cambiamento di abitazione e i disturbi psichici, mentre molto significativo è risultato l’atteggiamento dei genitori, specialmente della madre, funzionale all’attenuazione dei conflitti che scaturiscono in seguito al cambiamento di alloggio. Oltre che in relazione alla nuova realtà nazionale e all’esperienza migratoria, lo choc culturale può porsi anche in rapporto allo stabilirsi di nuove relazioni interpersonali fra soggetti culturalmente differenti che sfociano nell’incomprensione. A questa particolare situazione fa riferimento il metodo pedagogico dell’incidente critico elaborato da Margalit Cohen-Emerique, messo a punto per consentire al professionista della mediazione culturale di essere consapevole dei propri quadri di riferimento e creare la condizione di “decentrazione” necessaria per poter percepire correttamente il soggetto culturalmente differente.
Reazione nostalgica. La nostalgia si riferisce comunemente a un sentimento di tristezza legato a qualcuno o a qualcosa che non è più presente. La reazione nostalgica rimanda invece a una reazione più forte, più dolorosa e talvolta addirittura patologica, che subentrerebbe nel vissuto profondo degli emigrati in seguito all’allontanamento dal paese di origine. Questo fenomeno è noto sin dal 1678, quando Johannes Hofer scoprì presso i mercenari svizzeri la “terribile malattia svizzera” (die furchtbare schweizer Krankheit), che successivamente – nel XVIII e XIX Secolo – fu denominata «Heimweh», «mal du pays», o «home-sickness» e che in Italia chiamiamo appunto «reazione nostalgica». I sintomi comunemente riscontrabili includono tristezza, apatia e crisi di pianto; nei casi più gravi si aggiungono depressione e crisi isteriche.
Rispetto. Per rispetto si intende un sentimento di stima e di considerazione verso persone o idee. Si tratta di un concetto molto vicino all’accettazione positiva, al quale si rimanda per ulteriori dettagli. In un contesto di emigrazione l’atteggiamento di rispetto verso la persona straniera è di fondamentale importanza. Solo dopo che a livello interpersonale è stato possibile instaurare un rapporto improntato sul rispetto e sull’accettazione possono avere inizio il dialogo, l’incontro, ma anche lo scontro non violento ipotizzati dalla pedagogia interculturale.
Tolleranza. Con questo termine comunemente si intende la sopportazione paziente e senza lamentazioni di cose spiacevoli o dolorose. Nel contesto pedagogico il concetto di tolleranza è stato utilizzato con valenza positiva, anche nei confronti di soggetti stranieri. Se ne sono occupati molti studiosi, in particolare pedagogisti, che in passato hanno ribadito l’importanza dell’educazione alla pace: Comenio, Kant, Locke, Rousseau, Montessori. In ambito interculturale il termine è da ritenere meno indicato di “rispetto” o di “accettazione”, poiché rimanda ad un rapporto asimmetrico, in cui una persona posta ad un livello superiore ne “tollera” un’altra che viene implicitamente ascritta ad un rango (culturale, sociale, economico) inferiore. Al contrario, parlando di rispetto e di accettazione i soggetti vengono collocati ed interagiscono sullo stesso piano; pertanto tali concetti sono da ritenersi maggiormente conformi agli assunti di base della pedagogia interculturale.
Discriminazione. Il verbo “discriminare”, che significa riuscire a discernere e distinguere fra cose o persone, si accompagna comunemente ad una connotazione neutra. Nel contesto multiculturale esprime invece, a livello soggettivo o di gruppo, la negazione di diritti o dell’accesso a risorse per motivi di carattere etnico, linguistico, religioso o culturale. Pur essendo meno forte, il concetto di discriminazione si avvicina a quello di xenofobia, al quale si rimanda per ulteriori dettagli.
Discriminazione positiva. La discriminazione positiva è efficacemente esplicata dal cosiddetto effetto Pigmalione, che si verifica quando in seguito alle aspettative positive nutrite dall’insegnante verso un alunno, questo produce buoni risultati scolastici. Per un sano sviluppo della propria personalità, ogni essere umano necessita di essere accettato, amato e stimato. La presenza di aspettative positive da parte dell’educatore generalmente favorisce la fiducia e la stima nell’educando. In un contesto migratorio o multiculturale in cui sono frequenti i casi di insicurezza e di paura, un tale atteggiamento non può non giovare all’educando e al rapporto con l’educatore. Tuttavia, si possono presentare dei problemi nel momento in cui tali atteggiamenti si avvicinano alla xenofilia, ossia quando l’educatore premia e gratifica in maniera acritica ciò che viene prodotto dal bambino straniero. In questi casi non solo non si assolve adeguatamente alle funzioni educative e formative, ma si elude quel confronto interpersonale che per essere funzionale alla crescita deve anche essere di confronto e “sanamente” conflittuale. A livello politico-amministrativo il concetto di discriminazione positiva riguarda tutte le misure protettive, presenti soprattutto nei paesi anglosassoni, che le autorità pubbliche adottano nei confronti delle categorie sociali svantaggiate (ad esempio, misure in materia di formazione, alloggio e occupazione nei confronti degli immigrati), allo scopo di perseguire un’uguaglianza di fatto che l’uguaglianza di diritto non riesce ad assicurare.